Novembre
In questa newsletter: essere giornaliste negli anni '70, Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno e Megalopolis
Ciao, io sono Jennifer Guerra e questa è la mia newsletter mensile. Oggi non scrivo io, ma riporto un estratto da un articolo del marzo 1977 dalla rivista femminista Effe, che si intitola
La bracciante del giornalismo
Lo riporto per intero, perché è davvero una testimonianza interessante e, soprattutto, per tante cose mi sembra quasi di averla scritta io. Credo sia utile anche per scrollarsi di dosso quell’idea che una volta questo settore funzionava bene, anzi benissimo, mentre oggi signora mia…
Sono passati più di due anni da quando ho firmato il mio primo articolo. Ma l’amore per il giornalismo, mestiere avventuroso e affascinante soprattutto per una provinciale senza esperienza, è più antico. Risale agli anni svogliati del liceo, quando scrivevo poesie e raccontini, e più che Catullo e Lucrezio, provavo gran godimento a leggere la Ravaioli e la Fallaci, pensando presto di diventare come loro. A ventisei anni, con la concorde disapprovazione di un padre tiranno e di un trepido candidato marito, ho lasciato il paesello per la città e dopo qualche esperienza (buona) d’insegnamento, mi sono avventurata alla conquista di questo mestiere.
Perché «avventurata»? Perché fin dal primo, in apparenza facile approccio con i giornali, ho provato la netta sensazione che nessuno mi avrebbe aiutato: come se, quello che fai, non ti fosse mai richiesto. Vuoi diventare giornalista? E mal te ne incoglie! Devi sbrigartela da te: da te saper capire cosa fa notizia, intuire quando e come proporre delle idee (di cui c’è sempre gran fame nei giornali…). Vietato chiedere, vietato sollecitare consigli e suggerimenti a chi ha più «mestiere» di te. Perché questo? Perché in un Paese in cui hanno sempre imperversato le grosse firme e i formidabili manipolatori di notizie (mentre in America, ci avete pensato? Due giornalisti hanno fatto cadere un presidente!), fare il giornalista sembra essere una sorta di investitura riservata a pochi eletti. Quelli, per intenderci, che con pieno sdegno scrivono contro la disoccupazione intellettuale, ma non rinuncerebbero mai ai loro cinque contratti di collaborazione oltre alla poltrona di redattore nel «bolo» giornale. Allora non è difficile immaginare l’indifferenza e il fastidio (abilmente simulati) che suscita una autentica «drop aut» della situazione come me: donna, meridionale, figlia di «nessuno» senza il lustro di antenati e conoscenze o legami con i padroni o almeno i gregari più illustri della carta stampata.
Ed ecco il primo bilancio di un paio d’anni di bracciantato. Oltre alla tessera di pubblicista (che ho esibito come un trofeo fra l’indifferenza generale) e il consueto ritornello «Sei brava, scrivi per giornali importanti, non puoi lamentarti», non ho conquistato granché. Non ho un contratto di lavoro perché ho perso tempo, ma solo ai fini contrattuali, con un quotidiano che ha mutato rotta politica con la nuova gestione e con un «femminile» in storica fama di povertà; son sempre pagata a «pezzo» (malissimo) e mi posso considerare a tutti gli effetti una rappresentante del lavoro nero. Potrei chiudere baracca e burattini, come si dice. Ce n’è di che! Invece. Invece mi sorregge una feroce tenacia, e accanto a crisi di stanchezza ho momenti di autentica gioia e ironia, e la certezza che vincerò la mia battaglia. Perché mai? Sono orgogliosa d’aver fatto una scelta e di viverla fino in fondo. Tutto qui.
Masochismo o sfrenato orgoglio? Mah! Nessuna donna che conti solo sulle proprie forze riesce a lavorare e imporsi senza fatica, soprattutto nel lavoro cosiddetto intellettuale. Dunque non sono un’eccezione, e non saranno certo gli ostacoli a farmi rinunciare. Anche perché il mestiere che ho scelto di fare mi piace, anche adesso che ne conosco soltanto gli aspetti meno gratificanti, di durissimo tirocinio. E mi piace farlo da artigiana, cercando di veder più gente possibile, di andare in giro, di capire «dal vivo» come stanno le cose. È la fase della ricerca, che preferisco a quella conclusiva dello scrivere. Strani gusti! La maggior parte dei giornalisti fanno tutto per telefono (presto, presto, bisogna far presto) e non di rado si servono di collaboratori per poi elaborare il materiale a tavolino. Ma accanto a questa passione per la ricerca, e a qualche soddisfazione che, sia pure da esterna e precaria ho di tanto in tanto, ci sono gli aspetti intollerabili che condizionano notevolmente lo esito del mio lavoro. E non penso soltanto all’argent de poche che riesco a raggranellare a fine mese, ma alla sensazione, molto frustrante, di lavorare isolata, senza essere coinvolta nell’operazione complessiva della nascita del giornale. Quanto avviene nelle redazioni dei giornali a cui collaboro mi è quasi del tutto estraneo, soprattutto per gli aspetti tecnici (tipografia, impaginazione ecc.) da cui un giornalista professionista non può prescindere. I miei rapporti sono limitati a brevi, frettolosi, burocratici incontri con i capi servizio e i capo redattori. Al giornale interessa il «pezzo». Punto e basta. E per una come me che volesse ribellarsi a questa logica alienante e schizoide, ci sono decine di giovani disoccupati disposti al garzonato più duro. Dunque bisogna resistere. Ma se dovessi trovare un paragone fra le altre donne che lavorano, direi che in questi anni, che io considero per altri aspetti positivi e ricchi (soprattutto di guai), mi sento molto vicina alla condizione delle lavoratrici a domicilio, quelle che guadagnano mille lire per ogni dozzina di fiori di plastica, e che senza conoscere la fabbrica né poter vantare una esperienza con gli altri lavoratori, sostengono un sistema produttivo di cui subiscono soltanto lo sfruttamento e l’emarginazione. Senza alcun potere contrattuale, esse sperimentano sulla propria pelle che le difficoltà per chi vuole lavorare sono tante, ma che tutto congiura sistematicamente contro chi vuole essere indipendente ma ha il curioso destino di essere donna.
Cosa ho scritto questo mese
Per la mia newsletter in abbonamento Sibilla:
Per la newsletter di
Femminismi:Per Fanpage.it:
Il governo non ha ancora pubblicato la relazione annuale sull’aborto, ed è una cosa molto grave, 10 ottobre.
Il convegno anti-gender in Croazia pagato dall’Ue: la mossa di Meloni per riunire i pro-vita europei, 15 ottobre.
Il calcio non sa affrontare il suo enorme problema con le violenze sessuali commesse dai giocatori, 16 ottobre.
La GPA “reato universale” non è una legge per proteggere le donne, ma per colpire la comunità LGBTQ+, 17 ottobre.
Per 7:
Adriana Cavarero: «La differenza sessuale è un fatto: la galassia LGBT accetti le critiche»
Per The Vision:
Come da decenni il multi-level marketing lucra sulle difficoltà e sulla solitudine delle donne, 10 ottobre.
Cosa ho fatto questo mese
Carmen Puppo mi ha intervistata per L’Eco di Bergamo.
Cosa ho letto questo mese
Nel book crossing del mio paese ho trovato una copia di Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno, nella mitica edizione Mondadori con le illustrazioni di Quentin Blake e la sovracoperta che rivela un cuore rosso scintillante. Siccome è un periodo in cui leggo poco, ho pensato che questo libro che avevo amato tantissimo mi avrebbe fatto tornare un po’ di passione. E così è stato, anche se ogni cinque pagine mi dovevo fermare perché mi veniva da piangere. Ultimamente è così: penso a me da bambina e piango. Mi confermate che è normale a 30 anni? Comunque non fatevi ingannare da io che frigno, Ascolta il mio cuore è un libro che mi ha fatta ridere ad alta voce già dalla terza pagina, quando si parla della tartaruga Dinosaura e della sua targa appiccicata al posteriore.
Nota a margine: questo libro è indicato per bambinə di 10 anni. Ma come facevamo a leggere libri così lunghi a quell’età???
Cosa ho visto e ascoltato questo mese
Questo mese ho visto Megalopolis, il filmone-polpettone di Francis Ford Coppola. Ero andata al cinema con basse aspettative, ne sono uscita con grandissimo entusiasmo, come non mi succedeva da davvero tanto tempo. Ultimamente la qualità che mi piace di più in un film è quella di stupirmi: se vedo una cosa che è diversa dai soliti film copia-incolla che sembrano l’unica cosa che Hollywood oggi sia in grado di produrre, questo film mi piace. Megalopolis mi ha fatto questo effetto e la meraviglia confusa ed esagerata che ha suscitato in me ha superato, di gran lunga, il mio disprezzo per il messaggio che questo film vuole trasmettere. Ma le cose ci possono piacere e interessare anche se siamo in disaccordo, no?
Stando a Spotify, la canzone che ho ascoltato di più nell’ultimo mese è Sinking Boat degli Infinity Song.
I podcast del mese: Borghesia Violenta (Emons), sui “bravi ragazzi del terrorismo italiano”; Dieci Giugno (sorielibere.fm), sul delitto Matteotti; Mike: storia di una salma rubata (One Podcast), sul furto della salma di Mike Bongiorno; Il Santo (One Podcast), podcast di Marco Grieco su Giovanni Paolo II; E poi il silenzio - Il disastro di Rigopiano (Sky Italia).
Gli appuntamenti del mese:
Mercoledì 13 novembre sarò a Campagnola Emilia (RE) per presentare Il femminismo non è un brand.
Domenica 24 novembre nel pomeriggio sarò al CSO Django di Treviso per un talk dedicato a Carla Lonzi, insieme a Emiliana Losma.
Sabato 30 novembre sarò a San Vito al Tagliamentp
"Penso a me da bambina e piango. Mi confermate che è normale a 30 anni?" --> sì, e lo è anche a 35! Anche io quest'estate, mentre ripulivo la camera in cui sono cresciuta a casa dei miei a Bologna, ho passato un bel po' di tempo a sfogliare la copia anni 90 di Ascolta il mio cuore e rileggere passaggi che avevano colpito la mia immaginazione di bambina. È stato bellissimo ❤️ bellissimo anche l'articolo che hai condiviso da Effe, grazie!