Sibilla #5 - Cosa fanno davvero gli antiabortisti nei consultori
Gli antiabortisti sono sempre più presenti nei consultori e negli ospedali. Per qualcuno sono innocui volontari. Ma le loro armi sono la disinformazione e la manipolazione.
Mentre era ospite a Porta a Porta il 5 giugno scorso, la segretaria del Pd Elly Schlein ha criticato la presenza degli antiabortisti nei consultori che “impediscono alle donne di abortire”. Il conduttore Bruno Vespa ha risposto in modo piuttosto paternalistico che “nessuno impedisce alle donne di abortire” e che gli antiabortisti si limiterebbero a fare “informazione”.
L’idea che gli antiabortisti siano semplici volontari imparziali che aiutano le donne in un momento difficile è tanto radicata quanto fuori dalla realtà. Negli anni, numerose testimonianze dirette e inchieste hanno dimostrato come questi soggetti usino pressioni psicologiche, tecniche manipolatorie e disinformazione scientifica per dissuadere le donne dalla libera scelta.
Gli antiabortisti sono presenti da sempre nei consultori e negli ospedali: nel 1984 alla clinica Mangiagalli di Milano fu aperto il primo Centro di aiuto alla vita (Cav) in un ospedale, gestito dai volontari del Movimento per la vita (MpV). In Italia al momento esistono 332 Cav, la maggior parte dei quali resta fuori dalle mura delle strutture sanitarie. Ad aprile il Parlamento ha approvato un emendamento alla legge sui fondi del Pnrr proposto dal partito di governo che prevede che i consultori possano “avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”. La mossa è stata letta, anche all’estero, come una legittimazione di queste associazioni e una forma di restrizione all’aborto. In realtà, la situazione cambia poco a livello concreto, ma il sigillo del governo rappresenta un riconoscimento importante.
Da dove vengono gli antiabortisti
All’indomani dell’approvazione della legge 194 nel 1978 si costituì il Movimento per la vita, il cui scopo iniziale era quello di abrogare la legge. Il MpV riuscì a raccogliere le firme necessarie per un referendum abrogativo che si tenne nel 1981, con una sonora sconfitta. Già dal 1975 a Firenze alcuni volontari avevano costituito il primo Centro di aiuto alla vita, per contrastare le iniziative di mutualismo femminista che procuravano aborti in maniera clandestina.
Storicamente il MpV è stato sostenuto dalla Chiesa cattolica e ha sempre goduto di grande riconoscimento politico, anche perché è stato co-fondato e diretto dal deputato della DC e poi dell’UdC Carlo Casini.
Alla fine degli anni Duemila, però, il MpV ha cominciato a mostrare segni di crisi, specie dopo la controversa approvazione della Legge 40 nel 2004 sulla procreazione assistita, l’autorizzazione della RU486 (l’aborto farmacologico) nel 2009 e il caso Englaro, sempre nel 2009. In quegli anni si rafforzò un nuovo tipo di movimento antiabortista di tipo contestatario, che trovò nei vari Family Day e nell’opposizione al “gender” la sua forza. Oggi il principale rappresentante di questa “corrente” in Italia è ProVita & Famiglia, che è molto diverso dal MpV dal punto di vista politico e ideologico ed è meno legato al Vaticano.
In Italia quindi quando parliamo di “movimento antiabortista” dobbiamo distinguere tra:
L’antiabortismo classico del MpV, formato da un esercito di volontari che gestisce i Centri di aiuto alla vita, e impegnato in iniziative come il Progetto Gemma, case di accoglienza, culle per la vita, eccetera.
L’antiabortismo “nuovo” di ProVita & Famiglia, caratterizzato da un numero molto esiguo di associati e impegnato perlopiù in campagne mediatiche di grande impatto (ad esempio le affissioni pubbliche con i feti photoshoppati), con connessioni internazionali di cui vi ho dato conto nella scorsa edizione di Sibilla.
Per capire cosa differenzia le due associazioni, basta mettere a confronto i loro bilanci sociali.
In altre parole, la maggiore spesa di ProVita & Famiglia sono le campagne pubblicitarie (75% del totale, oltre 500mila euro) e solo il 3% viene donato direttamente alle famiglie in difficoltà. Anche il MpV spende una cifra considerevole per i servizi, ma una buona fetta riguarda l’acquisto delle materie prime e le donazioni dirette, cioè il vero e proprio attivismo antiabortista dei Cav.
Nei consultori e negli ospedali, gli antiabortisti si inseriscono in quel delicatissimo momento che va dall’ottenimento del certificato per l’interruzione di gravidanza e l’appuntamento vero e proprio. In questo lasso di tempo si verificano quegli episodi che ogni tanto bucano il mare d’indifferenza del giornalismo italiano per i diritti riproduttivi, come la promessa di elargire denaro nel caso in cui si cambi idea.
È legale? Sì. O meglio, le associazioni che operano direttamente nelle strutture sanitarie firmano convenzioni con gli ospedali o con i comuni e giustificano la loro attività sulla base dell’articolo 2 della Legge 194 che al comma d) stabilisce che i consultori devono
contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza.
I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.
La legge prevede anche che il medico inviti la donna “a soprassedere per sette giorni” (tolti i casi di urgenza). Spesso questo invito si trasforma nell’obbligo di sottoporsi a consulenze con i volontari antiabortisti del MpV.
Su ciò che avviene davvero in questi colloqui abbiamo testimonianze a non finire, oltre che qualche inchiesta giornalistica. Nel 2020, la giornalista di OpenDemocracy Francesca Visser finse di essere una donna in cerca di un’ivg all’ospedale San Pio di Benevento e all’ospedale Mangiagalli di Milano. A Benevento è stata fermata da una volontaria del MpV nel reparto di ginecologia che le ha consegnato un volantino e le ha parlato di “sindrome post-aborto” e di cancro al seno. Alla Mangiagalli l’esperienza è stata più positiva, ma è comunque dovuta passare dal Cav. In generale, i Cav non si presentano esplicitamente come associazioni antiabortiste e i loro volantini sono vaghi e fuorvianti.
La disinformazione scientifica
La disinformazione scientifica è una delle armi più consolidate dei Cav, a partire dalla presunta “sindrome post-aborto”. Secondo i promotori dell’esistenza di questa sindrome, non riconosciuta dalla comunità scientifica, l’aborto volontario porterebbe a disturbi psichici irreversibili simili a quelli della sindrome da stress post-traumatico. In generale, l’ivg può comportare tristezza, depressione o ansia, ma è improprio parlare di una “sindrome” che colpirebbe tutte le persone che abortiscono. Diversi studi hanno poi evidenziato come molti di questi sintomi siano in realtà associati alle gravidanze indesiderate, indipendentemente che si concludano con l’aborto o con il parto. Diverso è il discorso degli aborti multipli, che sono però sono rari (in Italia, nel 2020 solo il 4,3% di chi ha interrotto la gravidanza lo aveva fatto più di una volta in passato).
La questione del cancro al seno invece è più cristallina: non c’è alcuna correlazione tra aborto e cancro al seno. L’ivg non ha conseguenze negative nemmeno sulla fertilità, a meno che non vi siano complicazioni non trattate. Diverse testimoni e l’inchiesta di Visser hanno mostrato come la minaccia di queste presunte conseguenze negative dell’aborto sulla salute venga usata come forma di dissuasione.
In ogni caso, non spetta a nessuno se non al personale medico fornire informazioni di tipo sanitario sull’aborto. Un altro problema è che spesso i volontari dei Cav si presentano come persone in grado di fornire un “aiuto psicologico” pur non essendo psicologi o terapeuti. Ci sono testimonianze di donne indirizzate al Cav direttamente dai medici che hanno assicurato loro che avrebbero parlato con degli psicologi, quando si sono trovate di fronte a volontari ideologicamente motivati e senza alcuna formazione né competenza.
La manipolazione psicologica
Oltre alla disinformazione scientifica, un’altra prassi degli antiabortisti è quella di fornire aiuti economici alle donne intenzionate ad abortire. La più famosa di queste iniziative è il Progetto Gemma della Fondazione Vita Nova (affiliata al MpV), presentato come un progetto di “adozione prenatale”: per 18 mesi l’associazione fornisce un contributo in denaro di 200€ al mese alla donna che decide di non abortire. Nel bilancio sociale di Fondazione Vita Nova si legge che il 14% delle donne arriva al Progetto Gemma su segnalazione del personale ospedaliero e il 12% tramite un contatto diretto con i volontari dei Cav negli ospedali.
Negli anni il Progetto Gemma ha ricevuto diversi sostegni istituzionali. La Regione Piemonte, ad esempio, in due anni ha stanziato più di un milione di euro per il fondo “Vita nascente” e ha aperto un bando che è stato vinto quasi esclusivamente dai Cav locali. Diverse amministrazioni comunali negli anni hanno sostenuto economicamente il Progetto Gemma.
Oltre al Progetto Gemma, però, ci sono anche diverse donne che hanno riferito di aver ricevuto offerte di denaro direttamente da volontari antiabortisti. L’ultima lo scorso maggio all’ospedale Villa Scassi di Genova, dove una donna di origine straniera si è vista offrire 100 euro per non abortire.
I movimenti antiabortisti giustificano questa pratica sostenendo che le difficoltà economiche siano la prima causa di aborto in Italia. Dai dati raccolti dalla Fondazione Vita Nova è evidente che la maggior parte delle donne che usufruiscono del Progetto Gemma si trovino in condizioni di fragilità economica e sociale, ma questo non vale per tutte le donne che vogliono interrompere una gravidanza. La relazione annuale al Parlamento sull’ivg in Italia non raccoglie le motivazioni delle donne che interrompono una gravidanza – che sono complesse e tutte legittime – ma dai dati demografici è possibile sfatare quanto sostengono gli antiabortisti: la maggior delle donne che abortiscono in Italia hanno tra i 30 e i 34 anni, sono in possesso di un titolo di studio superiore e nel 50% dei casi sono occupate (una cifra coerente con i tassi di occupazione della popolazione femminile italiana).
Per gli antiabortisti non è plausibile che una donna voglia interrompere la gravidanza se non costretta dalle circostanze esterne o dal partner. Sempre dal bilancio sociale della Fondazione Vita Nova emerge che nel 26% dei casi le donne del Progetto Gemma erano già in possesso di un appuntamento e certificato per effettuare una interruzione volontaria di gravidanza. “Questo rispecchia in modo significativo le pressioni esterne subite per interrompere la gravidanza”, conclude la relazione. Ma chi l’ha detto?
Intercettare situazioni di grave disagio sociale o di coercizione riproduttiva è fondamentale, ma dovrebbe essere il compito degli assistenti sociali già presenti nel consultorio e non il frutto dell’opera di convincimento di associazioni religiose e ideologicamente motivate.
Fare “informazione” sull’aborto significa garantire libertà di scelta fuori da ogni pressione, che sia quella del partner o quella di fanatici religiosi che si inseriscono in situazioni delicate con promesse di denaro e minacce di gravissimi problemi di salute.
Il consiglio
Anche se non parla proprio di movimento antiabortista, Il culto del feto. Com’è cambiata l’immagine della maternità di Alessandra Piontelli (Raffaello Cortina editore) è un libro molto interessante per capire quanto sia recente l’idea del feto come persona, uno dei capisaldi del pensiero antiabortista. Prima dell’avvento della medicina neonatale e delle immagini diagnostiche, il feto era infatti una creatura misteriosa di cui si aveva un’idea approssimativa.