Speciale: Barbie
Hi Barbie! Hi Ken!
Eccomi qui, dopo mesi di assenza e silenzio, con un numero speciale della newsletter in cui cerco di farmi perdonare parlando di quello che sembra essere il tema più vitale per il destino della teoria femminista degli ultimi 150 anni, Barbie.
Sì, lo so, di Barbie forse non ne volete più sapere niente, e vi capisco. Per qualche giorno mi è sembrato di leggere Rinascita con la differenza che al posto di Palmiro Togliatti che ti fa la ramanzina perché vai in discoteca c’era unə tiziə su Instagram che ti spiega quanto stai tradendo la causa proletaria perché vai a vedere un film su una bambola, con in più il fatto che unə tiziə su Instagram non è Palmiro Togliatti.
Comunque, proprio perché sono passati un po’ di giorni dagli strali di fuoco, vorrei mettere in fila un po’ di cose su questo film, sul suo significato e sul dibattito che ha scatenato. Quindi cominciamo!
1. Lasciate divertire le ragazze per Dio
Il dibattito che ha suscitato Barbie mi ha fatto rendere conto di quanto la dimensione del gioco, del divertimento e della leggerezza sia del tutto preclusa al genere femminile. Un giorno ho visto un video su TikTok che spiegava una cosa illuminante. Mettiamo che una donna single esca con un uomo single di 40 anni, vada a casa sua e trovi una vetrinetta con una riproduzione della Morte nera, dei Lego o dei Funko Pop. Tutto normale, no? Magari è un tipo un po’ nerd ma sicuramente nulla di strano o allarmante, anzi, la cultura di massa odierna ha fatto un’operazione pazzesca di rebranding dei nerd che ora piacciono a tuttə. Mettiamo invece che un uomo single esca con una donna single di 40 anni, vada a casa sua e trovi una vetrinetta piena di Barbie. Beh, sicuramente è una psicopatica, ha chiaramente dei problemi ed è una da allontanare il prima possibile. Perché la Morte nera, i Lego e i Funko Pop sono accettabili, mentre la collezione di Barbie è la red flag di una psycho?
Leslie Jamison, in un bell’articolo sul New Yorker, ha parlato del desiderio collettivo – e molto femminile – di punire Barbie. All’analisi aggiungerei anche il desiderio di punire ciò che Barbie rappresenta: il divertimento senza scopo delle bambine, delle ragazze e delle donne. La vergogna che accompagna il desiderio di giocare con le Barbie è tematizzata in modo abbastanza eloquente nel film, sia attraverso Sasha – una preadolescente che ha smesso di giocare con le bambole da poco e che vuole nettamente prendere le distanze da quella fase della vita – e da Gloria – una donna adulta che si vergogna di usare la sua fantasia con Barbie attraverso il disegno.
Nel dibattito che ha seguito il film ho visto questa vergogna venire a galla con grandissima forza, specie nelle donne mature che dichiaravano che non sarebbero mai andate a vedere un film su una bambola (ho letto un commento di una signora sconcertata dal fatto che tutti parlassero di Barbie e nessuno del film di Marco Bellocchio, Rapito, un paragone decisamente appropriato, direi). Quello che è stato collettivamente punito, sia nei fiumi di parole e infografiche di Instagram sia da maschi talmente sicuri della propria virilità dal bruciare delle Barbie sull’orlo delle lacrime, è proprio il rito che Barbie ha creato, il divertimento di andare al cinema vestite di rosa, le risate, il farsi piacere un giocattolo da adulte. È interessante come la nostra società infantilizzi allo stremo le donne ma poi condanni ogni forma di gioco o divertimento femminile.
Barbie è un film politico, ma molti sembrano aver dimenticato che è soprattutto una commedia, che fa ridere ma anche riflettere, che prima di essere un film coi pipponi sul femminismo è un film dove ci sono battute sul pacco inesistente di Ken. Ma siccome la frivolezza è il peccato mortale numero uno per le donne, bisogna censurare il divertimento di Barbie, bisogna fare la morale a chi si compra i gadget (intendo costituirmi, vostro onore), bisogna dire che vestirsi di rosa è una forma di schiavismo patriarcale (giuro, letto coi miei occhi), bisogna screditare come sempre gli interessi e le passioni femminili, se si è uomini è concesso platealmente prenderle per il culo, se si è donne è più opportuno prenderne cinicamente le distanze. Poi fa niente se a quegli stessi uomini è concesso di giocare ai videogiochi (se le donne lo fanno, vengono punite), collezionare le bamb… ah no scusate le action figures di Zerocalcare e andare al cinema a vedere il film su GRAN TURISMO SIGNORE E SIGNORI. E se sembra che sto un po’ rosicando, è perché sto rosicando, perché mi sono sentita in colpa per essermi divertita, per aver apprezzato Barbie, per non aver subito pensato alle sue mancanze e ai suoi difetti e per non essermi lanciata subito nell’analisi dei rapporti di classe di Barbieland, così mi aggancio al secondo tema.
2. Compagna Barbie
Quellə che cercano l’anticapitalismo in Barbie possono unirsi a quellə che si arrabbiano perché Chiara Ferragni non ha parlato di lotta di classe nel monologo di Sanremo.
Ma più seriamente, una riflessione che mi ha suscitato il dibattito di Barbie (il dibarbieto, if you will) è chiedermi che significato attribuiamo all’anticapitalismo, se ci aspettiamo di trovarlo in un film come quello. È un po’ che mi faccio questa domanda, che ovviamente va oltre il perimetro del dibarbieto. È un po’ che mi chiedo se “anticapitalismo” non stia diventando una buzzword, una parola d’ordine, un contenitore che può essere riempito a proprio piacimento con dei valori generici. Anticapitalismo = non fare le adv su Instagram (questione che riguarda lo 0,0001% delle femministe italiane, n.d.r.)? Anticapitalismo = non comprare? Anticapitalismo = essere contro il capitalismo? Ma capitalismo inteso come sistema di valori o come sistema economico?
Credo che molte persone si definiscono anticapitaliste perché oggi è vietato dire la parola con la c, o comunque hanno paura di usarla. Lo capisco. C’è un passaggio del libro nuovo dove ho riscritto 25 volte le parole “marxista”, “comunista”, “anticapitalista” e “materialista” perché non sapevo come connotarmi politicamente. Ci sta e non è colpa nostra, la storia degli ultimi cento anni ci ha insegnato a odiare e temere quella parola. Però, tornando all’anticapitalismo, la mia impressione è che il significato che diamo a questa parola sia tutto schiacciato sui valori capitalisti più che sui modi di produzione (wink wink) e sui rapporti di classe. Insomma, per dirla con Nancy Fraser, anche l’opposizione capitalismo/anticapitalismo ha subito la sua “svolta culturale”, concentrandosi sull’interpretazione della sovrastruttura (l’ideologia capitalista) anziché sulla struttura (il capitalismo). Non voglio assolutamente dire che l’analisi della sovrastruttura non sia importante, ma cosa succede se prende il sopravvento e diventa l’unico fulcro del nostro essere anticapitalistə? È un po’ come quel femminismo che si concentra unicamente sul patriarcato come struttura dell’immaginazione e dimentica il suo essere anche una struttura di potere: non è sbagliato di per sé, ma alla lunga finisce con l’accomodarsi.
Poi aggiungo un’ultima cosa sul tema. Perché Barbie doveva per forza parlare di anticapitalismo? Io sono convinta che femminismo e anticapitalismo vadano a braccetto, ma non penso che il femminismo sia equivalente all’anticapitalismo (ovvero non credo in un rapporto di causa ed effetto tra capitalismo e patriarcato). Questa narrazione guarda caso piace tanto ai maskietti della sinistra che facendo le pulci alle femministe che non sono abbastanza kompagne, si concedono il lusso di dimenticarsi che il femminismo parte dall’assunto che c’è un sesso che domina sugli altri sessi, e che il sesso – ops – è proprio il loro. Spero che la ripubblicazione di Carla Lonzi serva anche a non farci dimenticare da dove siamo partitə.
Quindi questo per dire che se si parla di femminismo non c’è l’ordine del medico di parlare anche di capitalismo. Comunque trovatemi voi un film con questa linea di dialogo: “Nei nostri investimenti, il denaro non è parola, e le corporazioni non hanno affatto diritto alla libertà di parola. Quindi qualsiasi pretesa da parte loro di esercitare tale diritto è solo un tentativo di trasformare la nostra democrazia in una plutocrazia. Questo mi suscita emozioni, e le sto esprimendo. Non ho difficoltà a tenere contemporaneamente sia la logica che i sentimenti, e ciò non diminuisce le mie capacità. Anzi, le amplia”.
3. L’opera di Allan nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Ora vorrei entrare un po’ nel merito del film e del suo significato, sollevando una questione che a me sembra sia stata lasciata un po’ ai margini. Qui ovviamente ci saranno degli spoiler grossi come una mojo dojo casa house, quindi leggete a vostra discrezione.
Io credo che il grande tema del film sia la questione dell’autenticità e della riproducibilità, e che una delle chiavi interpretative risieda in Allan (Hi Allan!).
Mi spiego. Il dramma di Barbie Stereotipo è quello di essere, appunto, uno stereotipo. A differenza di tutte le altre Barbie che sono definite dalla loro professione o da alcune caratteristiche fisiche, Barbie Stereotipo è quella riprodotta in serie. Apprendiamo che anche Barbie Stramba era una Barbie Stereotipo, finché una bambina giocandoci con un po’ troppo entusiasmo, non l’ha resa diversa (e quindi, in Barbieland, una reietta). I Ken dal canto loro sono ancora più seriali, dato che nemmeno la loro professionalità li definisce o li distingue (tanto che il lavoro di Ken, beach, non è un vero lavoro e Ken ne prende rapidamente consapevolezza).
Barbieland è stato descritto da moltə come un “mondo alla rovescia”, dove le donne comandano sugli uomini. Secondo me si tratta di una interpretazione semplicistica. Se è vero che in Barbieland c’è una gerarchia di genere ben definita, mi guarderei bene dal paragonare la condizione dei Ken alla condizione delle donne nel mondo reale e soprattutto quella delle Barbie a quella degli uomini (visto che le Barbie esercitano un potere benevolo, privo di conflitto e di violenza, proprio come gli uomini, no?). Io credo che il patriarcato esista in Barbieland anche prima che Ken lo importi dal mondo reale: i Ken sono spacconi, in competizione fra loro, si fanno la guerra e soprattutto sono infelici. La mascolinità che esercitano è a tutti gli effetti una mascolinità tossica (è un termine che non amo, ma in questo caso mi sembra calzante), che ai nostri occhi appare ridicola perché è così che dovrebbe apparirci anche nella realtà. Ovviamente ciò che ci consente di ridere di questa mascolinità e di non ritenerla pericolosa è il fatto i Ken dentro Barbieland sono privi di potere politico, ma non appena lo conquistano sono a tutti gli effetti il ritratto della mascolinità egemone, rovinando tutto quello che toccano, saccheggiando e distruggendo le case delle Barbie, oltre che le loro personalità. I Ken, prima e dopo, sono tutti uguali e interscambiabili, così come interscambiabili sono i valori che consentono la loro performance di genere (cosa che le Barbie sfrutteranno nel loro piano di riconquista di Barbieland, dandosi il cambio nella seduzione dei Ken). Il patriarcato vuole che tutti i maschi aderiscano a un modello unico, riproducibile all’infinito e che è definito dal possesso materiale e dalla potenza sessuale. I Ken insomma non sono un simbolo degli uomini, ma sono un simbolo dei valori patriarcali e l’aderenza a questi valori li rende sostanzialmente infelici: Ken è infelice prima di andare nel mondo reale ed è infelice anche quando è all’apice della catena di comando. Ken sarà infelice finché non rinuncerà alla mascolinità egemone e spersonalizzante in favore di un’autenticità secondo i propri termini.
Nel mondo reale il tema del conformismo della mascolinità è raccontato attraverso i funzionari della Mattel, tutti vestiti uguali, senza nome e definiti dal loro ruolo all’interno dell’azienda, che parlano all’unisono e non sanno pensare con la propria testa. Guarda caso, l’unico che si distingue nella combriccola Mattel ha un nome e persino un cognome, Aaron Dinkins, e pronuncia una delle frasi più importanti del film: “I'm a man with no power, does that make me a woman?”. I Ken in Barbieland sono uomini senza potere e quasi tuttə hanno dato per scontato che svolgessero il ruolo che spetta alle donne nel mondo reale.
E qui allora arriva Allan, l’unico maschio di Barbieland che ci consente di dire che Barbie non è un film misandrico, dipende da che tipo di mascolinità vuoi incarnare. Allan anzitutto non è un Ken, è unico ed è pure il solo personaggio di tutto il film che sfonda la quarta parete e parla con la narratrice: (“There are no multiples of Allan. He's just Allan”; “Yeah, I'm... confused about that”). Ha tutte le carte in regola per incarnare quei valori della mascolinità che tanto vengono decantati, come ci viene chiaramente mostrato quando protegge Sasha e Gloria mettendo al tappeto un’intera squadra di Ken muratori. Ma Allan non è accettato dai Ken, che lo percepiscono come diverso e lo lasciano in disparte. Quando prendono il potere, Allan svolge le funzioni delle Barbie e deve massaggiare anche lui i piedi sudati degli altri Ken.
Ho trovato curioso che Allan sia stato subito percepito come gay, e se è vero che gli appassionati di Barbie hanno sempre dato per scontato che lo fosse, guarda caso l’unico personaggio del film che non si conforma alla mascolinità egemone deve essere per forza gay. Ricorda qualcosa?
Il viaggio di Barbie Stereotipo è un viaggio che porta dalla riproducibilità della bambola all’unicità di Barbara Handler. Il viaggio di Ken è quello dall’essere “Barbie e Ken” a essere “Kenough”, cioè all’incarnare nel pieno e più bel significato del termine quel just Ken che a tante persone sembra denigratorio. Credo che il film viaggi quindi su un duplice piano: da un lato c’è Barbie e la sua proliferazione di identità singolari e definite (Barbie astronauta, Barbie babysitter, Barbie premio Nobel…) che sembrano necessarie perché il mondo reale ha bisogno di modelli alternativi di femminilità. Ma come ho scritto in questo articolo su Fanpage.it, quello che fa Barbie non riesce a cambiare il mondo reale. Alla fine è Barbie Stereotipo (l’unica senza un’identità definita da qualcun altro) a trovare una sua autenticità e una sua autodeterminazione. Dall’altro lato ci sono i Ken. Ovviamente l’esigenza di una bambola Ken astronauta non è così stringente per i bambini, visto che possono guardare gli astronauti in carne e ossa come modelli, ma questo non toglie che il modello più importante e oppressivo di tutti resti quello della mascolinità egemone. Barbie Stereotipo ha una gamma di modelli di autenticità straordinari a cui aspirare, ma alla fine sceglie l’ordinarietà (e l’unica cosa un po’ meh del film per me è proprio il fatto che Gloria proponga al CEO di Mattel di fare Barbie Ordinaria), perché l’ordinario è il punto di partenza per immaginare la propria identità unica. Per Ken la sfida è diversa, perché i maschi non hanno bisogno di modelli e la sola esperienza della mascolinità – seppur conformista – è già raccontata come straordinaria. Ken quindi deve accettare di essere just Ken, lui e lui soltanto, libero di “essere tutto ciò che vuole”, come recita il claim di Barbie.
Spero abbiate apprezzato questa newsletter un po’ pazzerella. Chiudo con gli appuntamenti di settembre:
Domenica 3 settembre sarò a Varese per il camp di formazione politica “Autunno Caldo”, organizzato da Collettiva*. Info e iscrizioni qui.
Venerdì 8 settembre sarò alla Triennale di Milano per Il tempo delle donne, l’evento annuale del Corriere della Sera dedicato alle donne.
Martedì 12 settembre al MAXXI di Roma ci sarà l’inaugurazione della mostra “Straordinarie – protagoniste del presente”, realizzata da Terres des Hommes, in cui c’è anche una fotografia della sottoscritta. Non so ancora se riuscirò a esserci all’inaugurazione, ma vi invito comunque ad andare a vedere la mostra!
Sabato 23 settembre sarò all’ex caserma di Livorno a Libri in Rivolta per presentare Il capitale amoroso.
Mercoledì 27 settembre vi ricordo, per chi si è iscrittə, l’appuntamento a Roma con la scuola di scrittura Officina Lara Facondi.
Venerdì 29 settembre sarò a Terni per presentare Un’altra donna. Info più avanti.
Baci,
Jennifer