Sibilla #25 - Morire legati a un letto d'ospedale. Con un'intervista a Giulia Gazzo.
Una sentenza della Cassazione ha deciso che la contenzione fisica non è un atto medico ma una privazione della libertà, eppure è un presidio che continua a essere usato.
Tw: violenza ospedaliera
Nel 2018 la sezione penale della Corte di Cassazione si è espressa sull’uso della contenzione fisica in ambito sanitario, definendola “un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l'effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente”. La contenzione fisica è uno dei tre metodi di contenzione previsti per il o la paziente, insieme a quella farmacologica (che prevede la somministrazione di farmaci calmanti) e quella ambientale (che prevede la collocazione in un luogo dove non ci sono pericoli). La sentenza arrivava nel contesto del processo per il decesso di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare e militante anarchico morto nel 2009 per un edema polmonare durante un TSO, durante il quale rimase legato con delle fascette a un letto dell’ospedale psichiatrico di Vallo della Lucania per 87 ore, senza essere monitorato. Per la morte dell’uomo furono processate e condannate in appello, seppur con pene di lieve entità, 17 persone tra medici e infermieri per i reati di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato e falso ideologico in atto pubblico.
La sentenza è importante perché, come scrisse all’epoca Luca Benci su Quotidiano Sanità, per la prima volta i giudici si interrogavano sulla natura della contenzione meccanica. Secondo la sentenza, la contenzione fisica è giustificata solo in circostanze eccezionali, ovvero nel caso in cui vi sia un pericolo grave per il paziente o per gli altri che non può essere evitato con altri mezzi e non può essere usata in via cautelare, cioè prima che il pericolo si presenti nella sua concretezza. Nonostante le varie linee guida regionali sull’uso della contenzione siano state aggiornate alla luce di questa sentenza, anche dopo il 2018 si sono verificati diversi decessi di pazienti sottoposti a contenzione meccanica: appena un anno dopo, la 19enne Elena Casetto è morta dopo aver appiccato un rogo al letto cui era legata all’ospedale di Bergamo; nel 2021, Wissem Ben Abdel Latif, un migrante tunisino di 26 anni, è morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma, dove da cinque giorni era contenuto in un letto senza assistenza e dove era stato portato da un Centro di permanenza per il rimpatrio. Nel 2022 sono stati registrati altri due decessi in seguito a contenzione negli SPDC delle Asl di Roma.
Nel 2024, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo secondo cui “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Il caso riguardava un giovane paziente psichiatrico che era stato legato per otto giorni a un letto dell’ospedale di Melzo durante un ricovero volontario dopo un episodio di aggressione contro i familiari e il personale medico. Nel 2021 il Ministero della Salute ha emanato un documento per il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura entro il 2023. Nel 2022, l’obiettivo dell’abolizione era stato inserito anche nella Conferenza Stato-Regioni ed erano stati stanziati dei fondi per formare il personale medico sulle alternative alla contenzione, anche se, come ha segnalato Ludovica Jona in un articolo apparso sul Fatto Quotidiano, in alcuni ospedali queste formazioni sembrano puntare più a insegnare l’uso corretto della contenzione meccanica, anziché a superarla. Dal 2006 esiste inoltre il “Club SPDC No Restraint”, una rete di 24 reparti del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura delle unità ospedaliere, che non utilizza la contenzione fisica.
Se il problema della contenzione meccanica comincia a essere affrontato negli SPDC un discorso a parte va fatto per le RSA, le residenze sanitarie assistenziali per anziani, il cui impiego viene giustificato come uno strumento per impedire le cadute delle e dei pazienti. In alcune strutture, la prevalenza della contenzione arriverebbe fino al 60%. Uno studio comparativo del 2021 realizzato sui decessi in oltre 300 RSA di sei Paesi europei, tra cui l’Italia, ha rilevato che nel 18% dei casi analizzati nel nostro Paese la persona moriva mentre era legata. Si tratta della percentuale più alta in Europa, seguita dal Belgio.
Un caso di ordinaria contenzione: Giulia Gazzo
Secondo il Fatto Quotidiano, ogni anno in Italia si verificherebbero circa 12mila casi di contenzione meccanica all’interno dei reparti psichiatrici italiani (compresi quelli infantili), dimostrando che l’obiettivo di abolirla entro il 2023 è stato ampiamente disatteso. L’Intesa Stato-Regioni prevede anche il monitoraggio del fenomeno da parte delle regioni, che però non avviene in maniera puntuale: non solo alcune regioni non hanno mai fornito i dati, ma mancano elementi chiave come ad esempio quelli sulla durata della contenzione. A questi casi vanno aggiunti quelli che delle RSA e quelli di altri reparti, come i pronto soccorso. Di recente il tema è stato sollevato dall’attivista Giulia Gazzo (@lunnylunnylunny sui social) che ha pubblicato un video sul suo profilo Instagram per denunciare l’uso della contenzione fisica durante un ricovero nel pronto soccorso di un grande ospedale di Milano.
Lo scorso inverno Gazzo, che è una donna autistica e ADHD di 38 anni, è stata portata in pronto soccorso in seguito a un’intossicazione alcolica. “Mia madre mi ha portata in ospedale e ha immediatamente comunicato che sono autistica, ma nonostante questo mi è stata tenuta lontana”, racconta a Sibilla Gazzo, che riferisce anche di essere stata presa in giro dal personale quando chiedeva della mamma. “Mi hanno legata alla lettiga per tutta la notte, mi hanno lasciata urinare addosso, dopodiché mi hanno infilato un pannolone coprendomi con un camice leggero, che mi lasciava mezza nuda. Ero congelata e umiliata. Non ero più un essere umano per loro, e nonostante fossi perfettamente tranquilla dopo l’inserimento del sondino nasogastrico – lavoro che mia madre, in grado di tranquillizzarmi, gli avrebbe reso molto più facile – non mi hanno slegata fino al mattino, causandomi al braccio una trombosi venosa profonda, di cui non si sono neanche accorti”.
Secondo Gazzo, l’autismo è una componente importante per spiegare la decisione del personale di praticarle la contenzione meccanica. “Ha avuto due possibili ruoli a mio avviso. O se ne sono fregati, o hanno pensato di poter abusare di me proprio per quello”, racconta, ricordando che nella maggior parte degli ospedali non esiste un protocollo specifico per le persone autistiche e neurodivergenti. Inoltre Gazzo si trovava lì per un’intossicazione alcolica, una ricaduta da una dipendenza che si era ripresentata dopo un periodo particolarmente duro per lei, in cui aveva affrontato una grave malattia del compagno. “Alle persone piace tanto descrivere noi persone autistiche come angeli puri e speciali, per sempre bambini. Ma la verità è che spesso soffriamo di disturbi da dipendenza. Le sostanze ci aiutano a sentirci inserite, e a tenere sotto controllo sensoritalità, emotività, anche cognitività”, spiega. “Io faccio parte della categoria dei reietti. Quelli che hanno maggiori probabilità di essere legati. Per la maggior parte delle persone, anche tra il personale ospedaliero, l’autismo è una malattia mentale. Figuriamoci un’autistica che abusa di sostanze ed è arrivata in pronto soccorso ubriaca!”.
Gazzo, che aveva già sperimentato la contenzione nel 2009 durante un TSO, ha provato a chiedere giustizia alla dirigenza dell’ospedale. “Mia madre è stata ricevuta dal primario del pronto soccorso più di una volta, che ha in parte ammesso quello che è successo. Voleva incontrarmi, per spiegarmi come funzionano le cose in pronto soccorso. Che paternalismo, io lo so fin troppo bene come funzionano le cose in pronto soccorso, purtroppo. Gli ho scritto una lettera, sperando di convincerlo a darmi i nomi delle persone responsabili e ad assicurarmi che non avrebbero toccato mai più un paziente, specialmente disabile. Gli ho scritto che sono autistica ma so bene cos’è l’abuso di potere”. Le parole della donna sono state però inascoltate. Gli estremi per una denuncia ci sarebbero, ma Gazzo non sa se se la sente di affrontare un processo: “Non sono psicologicamente in grado di subire un pubblico scrutinio in cui sarei io la persona sotto processo in realtà, non l’ospedale. L’avvocata che mi segue è stata sincera, me lo ha spiegato. Andrebbe esattamente così. Dando [all’ospedale] anche un processo mi sembrerebbe di dargli un’altra parte di me, e mi hanno già preso troppo”.
Per questo ha raccontato la sua storia su Instagram. “Sono autistica, un’attivista autistica. Internet ha dato voce alle persone come me, e noi usiamo Internet per rivendicare i nostri diritti. Ho usato i social perché per me è molto più naturale che prendere un megafono e andare a urlare da un carro ad una manifestazione”. Le reazioni ai suoi video sono state perlopiù di sostegno, anche se c’è qualcosa che resta difficile da far capire alla gente: “Che domani potresti essere tu. Che domani potresti essere una persona anziana, disabile, povera, tossicodipendente. Non ci si identifica nelle persone in cui non ci si riconosce. Ma un domani saremo tutte persone anziane e disabili. Cosa urlerai mentre ti legheranno nell’indifferenza del mondo?”.
Il consiglio
Come una marea è un podcast realizzato da Francesca Zanni ed Enrico Bergianto per Radio24 che racconta la vita e la morte di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare e militante anarchico, morto mentre era legato a un letto d’ospedale durante un TSO.